Stiamo facendo i servi sciocchi di una Nazione, gli Stati Uniti, dove un bambino di sei anni può entrare in classe e sparare con la pistola alla sua maestra, ferendola mortalmente. Dove due dei ‘piatti’ nazionali sono hot-dog e cheeseburger con patatine e dove, ricordiamolo sempre, si cuociono le caramelle.
Poi ci sono gli orrori della Cia e i crimini di guerra commessi un po’ in tutto il mondo nel nome di una democrazia con la ‘d’ minuscola che ha portato soldi e potere unicamente nelle tasche di Washington. Dovrebbe bastare per farci dire che no, di un Paese così non vogliamo e non possiamo essere la 52esima stella.
E invece del Nord America non solo l’Italia è maggiordomo ma pure succube (Crisi di Sigonella esclusa, unico e ultimo episodio in cui la Bandiera italiana è stata davvero onorata dal nostro Governo di fronte all’arroganza statunitense e poco importa se a farlo sia stato Bettino Craxi) perennemente debitore per ragioni ‘storiche’ - che in realtà sono meramente politico-economiche - che ci vengono ricordate ogniqualvolta si fa largo il dubbio che noi agli Usa quella cambiale in bianco firmata dopo la Seconda Guerra Mondiale l’abbiamo già pagata e strapagata.
Noi, l’Europa, l’Italia abbiamo consegnato le chiavi di casa a chi ha imposto il trionfo della tecnologia sulla cultura, l’intrattenimento di massa sulle Arti, seguendo una logica di ‘traino’ del più forte, ma che gli States fossero il ‘più forte’ lo abbiamo accettato a priori, perché faceva comodo.
Che c’entra questo con la Valle d’Aosta? C’entra eccome, perché il microcosmo della Petite Patrie alla faccia della sbandierata Autonomia e della retorica montanara elevata a comizio (ma davvero avevamo bisogno di ‘Otto montagne’ del bravo Paolo Cognetti per capire chi siamo?) si è trasformato negli ultimi decenni in un formidabile modello di ‘piccola America’, dove la sola logica che conta è quella del ‘possesso e consumo’.
Questa però è una logica su larga scala che non ammette scelte umanistiche; se ne frega della decantata quanto retorica ‘centralità dell’uomo’ perché di centrale c’è solo il denaro destinato alle tasche di pochi. E’ l'ovvia globalizzazione, l’unificazione dei mercati occidentali anzi mondiali nella sua unica forma possibile, quella disegnata e promossa dagli Stati Uniti dal Dopoguerra.
Lezioni di una strategia spicciola di autoaffermazione basata sull’asservimento cieco al Mercato, sulla perdita di memoria culturale, sullo spreco economico e sull’incapacità di ammettere i propri errori i valdostani li hanno avuti nei governi regionali che si sono susseguiti negli ultimi quarant’anni. Governi che sono convinto abbiano agito in buona fede, con intenzioni serie di crescita a più livelli della comunità e che, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta hanno sicuramente portato una temporanea agiatezza camuffata da benessere, ma si è pagato un prezzo altissimo.
Pochi, retorici esempi che ben conosciamo ma che facciamo bene a ricordare ogni qualvolta si renda necessario, come un mantra:
- ad alcuni settori della sanità, che era modello di eccellenza, sono state erogate importanti risorse economiche e altri sono stati lasciati languire; è mancata una efficace riorganizzazione e ciò ha comportato la fuga costante di personale qualificato;
- la scuola che in Valle era stata modello di sperimentazione sociale e crescita formativa si ritrova atrofizzata, in fuga dalla montagna ovvero laddove ce ne sarebbe più bisogno, con una classe docente ormai rassegnata;
- a causa di una politica di continue elargizioni e contributi a fondo perduto finiti nelle mani di imprenditori italiani ed esteri senza scrupoli, la crisi industriale valdostana ha superato da tempo il punto di non ritorno e il territorio è disseminato di aree e strutture vergognosamente abbandonate;
- l’ambiente è minacciato da progetti ambiziosi e costosissimi, più simili a speculazioni che a reali occasioni di rilancio economico e occupazionale e che paiono tener ben poco conto dell’ecosistema per il quale sono pensati;
- l’agricoltura ha seguito un modello ‘di pianura’, concedendo a mano aperta investimenti sull’allevamento bovino di grandi dimensioni in favore dei pochi che potevano permetterselo e abbandonando a sé stesse le realtà agropastorali più piccole, che di fatto sono però quelle che da sempre hanno la cura quotidiana del territorio.
- poche e rinomate località turistiche sono reclamizzate nel mondo ma intanto ‘l’altra montagna’ si spopola perché lo abbiamo voluto noi: senza scuola, con servizi ridotti al minimo (in certe zone è venuto meno persino il passaggio degli autobus), senza luoghi di aggregazione (negozi, locali) i paesi e villaggi di collina si sono trasformati in meri dormitori e quelli montani addirittura in villaggi-fantasma.
A tutto questo aggiungiamo un costante impoverimento e imbarbarimento dei rapporti sociali e umani; i recenti e preoccupanti dati sulle violenze di genere e sui reati giovanili ne sono la conferma.
Però da qui si può e si deve ripartire, come dimostrato da sempre più persone - soprattutto giovani e questa è la speranza più grande - che hanno deciso di scommettere sul territorio, anche quello ‘estremo’, tornando ad abitarlo e a lavorarci, creando start-up biologiche e ambientali dalle potenzialità inimmaginabili, recuperando strutture divenute offerta ricettiva singolare e profondamente connaturate al ‘luogo’, alla terra.
Non tutto è perso, insomma; possiamo essere davvero esempio di eccellenza cambiando passo, sganciandoci una volta per tutte da un modello di esistenza preordinato e mendace, un modello di vita che ci è stato offerto con false lusinghe ma che non è il nostro.
La Valle d’Aosta deve ritrovare la strada della sua vera autonomia, che prima di tutto è culturale e sociale e solo dopo è economica se non prescinde dal territorio in cui opera; se siamo capaci di riconoscere i nostri errori di calcolo e di percorso, la strada giusta la si ritrova. Noi non siamo l’America.