Il 3 e 4 agosto scorsi, in Valle d'Aosta e in Puglia, a poche ore di distanza si sono tolte la vita due persone molto diverse ma unite da un destino tragicamente speculare: Sandra Manfré, vicequestore della Polizia di Stato, e un detenuto del carcere di Brissogne. Entrambi vivevano dentro il sistema della Giustizia, ma lo facevano da versanti opposti: chi ne indossava l’uniforme, chi ne subiva le sbarre. Eppure, tutti e due sembrano esserci precipitati dentro, fino a rimanerne schiacciati.
Non è facile, né corretto, azzardare analogie troppo semplici. La morte è un fatto personale, intimo, indicibile. Ma questa sincronia – due suicidi nello stesso giorno, nello stesso universo istituzionale – impone almeno una domanda collettiva: quale giustizia abbiamo costruito, se chi la serve e chi la subisce possono arrivare allo stesso identico gesto estremo?
Sandra Manfré era una servitrice dello Stato, apprezzata e rispettata. Era una donna, però, quindi per lei tutto è stato necessariamente più difficile: la carriera, il riconoscimento professionale, il peso delle responsabilità. Dietro la divisa, probabilmente, si agitavano anche dolori, stanchezze, disillusioni che nessuno ha saputo cogliere o lenire. Di contro, un detenuto finito in cella per spaccio di stupefacenti: uno che ha sbagliato, certo, ma che forse non ha trovato, nel carcere, né redenzione né senso. Forse solo abbandono.
La giustizia non è una parola neutra. È una promessa, o dovrebbe esserlo. Una promessa di equità per chi sbaglia, ma anche di riconoscimento per chi ogni giorno affronta il male e tenta di contenerlo. Quando entrambe le categorie – i colpevoli e i garanti della legge – cedono nello stesso giorno alla disperazione, è evidente che qualcosa non funziona. Né dentro le celle, né dietro le scrivanie.
Il suicidio è sempre una sconfitta. Ma quando riguarda chi sta 'dentro' le istituzioni, la sconfitta è anche pubblica. E interroga tutti noi. Le Forze dell’ordine, lasciate spesso sole, consumate da turni impossibili, pressioni enormi, solitudini che nessun addestramento può annullare, delusioni al termine di una lunga indagine che può essere 'rigettata' da un gip disattento. E i detenuti, che il carcere dovrebbe rieducare, ma che invece – spesso – si limita a custodire in un tempo vuoto, che logora senza prospettiva.
Due morti che sembrano lontane, ma che parlano lo stesso linguaggio muto della solitudine e della rassegnazione. Forse la giustizia, per davvero, dovrebbe cominciare proprio qui: dal non lasciare soli né i tutori dell’ordine né i condannati. Perché se entrambi arrivano a togliersi la vita, qualcosa di fondamentale ci è sfuggito.