"Rispetto in toto le sentenze, alle quali non ho opposto ricorso in appello. Ma non mi pento minimamente di quello che ho fatto". Così a Laprimalinea.it il colonnello dell'Arma in congedo Guido Di Vita, dal 2005 al 2012 comandante del Gruppo carabinieri di Aosta (prima era stato alla guida del Reparto operativo di Reggio Calabria). Uno che non le ha mai mandate a dire, il colonnello Di Vita. Era in servizio a Torino quando nella primavera del 2018 il Presidente Mattarella conferì un incarico esplorativo all’economista progressista Carlo Cottarelli per un governo in grado di traghettare il Paese verso nuove elezioni.
In quei giorni usciva il libro 'Ho difeso Licio Gelli' scritto dal professor Augusto Sinagra, candidato per Casapound nella circoscrizione di Roma Tuscolano ma soprattutto ordinario di diritto delle Comunità europee all’università La Sapienza di Roma, che era stato avvocato strenuo difensore del Venerabile della P2 e che in un lungo post su Facebook aveva attaccato duramente la decisione del Capo dello Stato, accusandolo di aver "violato la Costituzione", "minato le fondamenta della Repubblica" e "negato le radici della democrazia". Sinagra concludeva il suo post con una promessa che suonava quasi come una minaccia: "Se ci sarà da scendere in piazza, io sarò in piazza".
Il colonnello Di Vita aveva letto il post e non aveva resistito alla tentazione di rispondere per le rime: "Sinagra, ma vaff.......(scritto per esteso ndr) Tu non sei nemmeno degno di leccare i piedi a Mattarella. E se scendi in piazza ci sarò anch’io, ma dall’altra parte".
Immediata la denuncia per diffamazione dal parte del professore romano e nel febbraio 2020 il Tribunale civile di Roma condannò Di Vita a risarcirlo con duemila euro per il "momentaneo disagio che consegue al vedersi rivolgere una parola scorretta", pur ritenendo "comprensibile" lo "sdegno" che le parole di Sinagra avevano causato in un fedele servitore della Repubblica quale il colonnello dell'Arma.
Di Vita subì anche un procedimento disciplinare (i carabinieri hanno il 'Fascicolo P' dove 'P' sta per 'Personale' e dove confluiscono meriti e demeriti di carriera) che si concluse con la sanzione della 'consegna' (sospensione della libera uscita) per cinque giorni. Il colonnello, mai una macchia in carriera, non ci stette e ricorse al Tar di Torino, che poche settimane fa ha sì annullato il provvedimento per un vizio formale, in quanto la commissione sanzionatoria era stata composta illegittimamente, ma lo ha ritenuto valido nel merito, condividendo "l’argomentazione svolta dall’amministrazione nel senso di ritenere che la condotta tenuta dal ricorrente sia idonea ad arrecare pregiudizio al prestigio dello Stato o delle sue istituzioni (tra cui l’Arma dei Carabinieri), atteso che non può ritenersi conforme ai valori e obiettivi della Repubblica e delle istituzioni che la compongono una condotta, come quella tenuta dal ricorrente, che, seppur mossa dall’intento di difendere la più alta figura istituzionale dello Stato, nondimeno è stata posta in essere in violazione dei canoni di continenza e pacatezza, mediante modalità idonee a generare, negli utenti della rete, reazioni di dissenso e polemica. In altre parole, la condotta ha contribuito, come adeguatamente affermato dall’amministrazione, a 'innalzare la tensione della discussione'".
"Ribadisco di aver accettato le sentenze, disciplinare compresa, senza fare alcun appello - commenta il colonnello Di Vita - ma resto fermo nella certezza di aver operato nel modo migliore difendendo il Capo dello Stato e delle Forze Armate, anche se forse con parole fuori luogo e dettate dalla rabbia del momento. Ma siamo esseri umani, non siamo pezzi di plastica. E le Istituzioni democratiche vanno protette, e deve farlo chi indossa l'uniforme da carabiniere come chi indossa l'abito civile del cittadino: è un dovere di tutti".