Editoriale | 22 febbraio 2024, 13:23

Io condannato perché rischi 12 anni di carcere ma ho scritto che puoi prenderne al massimo sei

Sempre più facile finire nei guai, per i giornalisti che svolgono con scrupolo il loro lavoro. E non è soltanto la nuova legge-bavaglio a minacciare il diritto di cronaca

Io condannato perché rischi 12 anni di carcere ma ho scritto che puoi prenderne al massimo sei

Questa mattina il Tribunale di Aosta mi ha condannato in rito abbreviato in primo grado a una pena di 344 euro di multa e a un risarcimento di cinquemila euro alla parte civile per il reato di diffamazione a mezzo stampa.

Se mi ritenessi colpevole potrei soltanto rallegrarmene: il pm onorario reggente l'accusa aveva chiesto un anno di carcere ridotto di un terzo (dunque a nove mesi) per effetto dell'abbreviato e a un "risarcimento equo" alla parte civile, la quale a sua volta, tramite uno studio legale di Milano, aveva chiesto 50 mila euro di risarcimento di cui 25mila da versare immediatamente. Il fatto è però che io mi ritengo assolutamente innocente, anzi, credo di essermi occupato con grande scrupolo di non ledere l'onore della presunta 'parte lesa'. 

L' 1 aprile 2023 (chiarisco subito: non è stato un Pesce...) ho pubblicato su questo giornale un articolo dal titolo 'Guidati da un giudice tributario, i maxi evasori della 'banda delle fiches' hanno colpito anche al Casino de la Vallée', a mia firma. Una vicenda trattata, prima che da me, da diversi altri quotidiani nazionali e lombardi. Non potendo un articolo contenere un intero fascicolo penale di centinaia, migliaia di pagine, mi sono ovviamente limitato a un sunto il più esaustivo possibile, evidenziando che l'inchiesta della Guardia di finanza riguardava una presunta maxi evasione fiscale che coinvolgeva diverse persone. 

Uno degli imputati indicati nell'articolo (gli indagati sono finiti a processo), ovvero il giudice tributario Donato Arcieri, è stato arrestato ed è attualmente a processo per il reato di corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter codice penale; pena da 6 a 12 anni di carcere) e non per il reato di evasione fiscale (D.lgs 74 del 2000, modificato dal Dl 138 del 2011 e ulteriormente ritoccato dal Dlgs. n. 158/2015; pena massima sei anni di carcere).

In verità l'articolo non attribuiva direttamente il reato di evasione fiscale al giudice Arcieri bensì vi era un riferimento generico del reato nel titolo e nel sommario (il reato di corruzione in atti giudiziari compariva anch'esso senza riferimento preciso nell'articolo) tale, forse, da indurre in errore di valutazione i lettori. Contestualmente, indicavo in Arcieri la figura di 'spicco' nel procedimento, trattandosi di uno stimato giudice tributario, figura socialmente preminente rispetto a quelle dei suoi co-indagati e co-imputati. Il reato di corruzione in atti giudiziari è certamente ben più grave rispetto a quello di evasione fiscale che anzi (e purtroppo) nell'opinione pubblica viene spesso valutato come 'atto di giustizia' nei confronti di un Fisco ritenuto aggressivo e insensibile (ricordo lo 'sdoganamento' di almeno un certo tipo di evasione da parte di un Presidente del Consiglio, alcuni anni fa). Tanto sarebbe bastato per ritenere che quanto da me scritto (anche rispetto ad articoli pubblicati da altre testate, assai meno teneri del mio nei confronti del giudice Arcieri) rispettasse i tre criteri che escludono il reato di diffamazione a mezzo stampa: verità oggettiva, continenza e interesse pubblico alla conoscenza del fatto. Sì, leggendo l'articolo forse non si capisce bene che il giudice tributario è stato accusato di un reato odioso, infamante per chi indossa una toga: se fossi stato in lui, di questo ne sarei stato ben felice.

Invece il giudice tributario e imputato a processo Donato Arcieri si è sentito diffamato dal mio 'pezzo' e mi ha denunciato per diffamazione a mezzo stampa. Sulle prime, quando ho ricevuto la notifica del 415 bis, non ci ho creduto più di tanto, per qualche istante mi è sembrato uno scherzo di cattivissimo gusto. Poi, nel breve periodo delle indagini difensive, ho prodotto agli inquirenti materiale a mia discolpa e ho chiesto di essere interrogato. La procura di Aosta ha ritenuto comunque necessario mandarmi a giudizio, il gip ha accolto l'istanza. Oggi è stata emessa sentenza di condanna alla quale, per quanto lieve rispetto alla richiesta, farò immediato ricorso in Corte di Appello perché non voglio pagare nemmeno un centesimo per una colpa che non ho, per un reato che non ho commesso. Non mi sono mai tirato indietro e non ho mai accampato scuse quando ho commesso errori (sempre in perfetta buonafede) nel corso del mio lavoro, ma con altrettanta trasparenza difendo il mio corretto operato. E' stata di conforto, oggi, la compagnia dei colleghi cronisti durante l'ora di attesa della sentenza. Un segno di vicinanza non ostentato, non scontato e per questo ancor più apprezzato.

Mi permetto una considerazione: faccio questo mestiere da tanti anni e mi sento di poter affermare con certezza che mai come in questi ultimi tempi la linea di demarcazione che separa il diritto di cronaca e il reato di diffamazione è labile ed è sempre più soggetta a interpretazioni. Nell'opinione pubblica notizie verificate e comprovate di autorevoli testate giornalistiche si confondono con bufale, provocazioni e meri commenti sui social, in una babele dove diventa sempre più difficile distinguere il vero dal falso. E' sufficiente trovarsi dalla parte giusta della barricata per sentirsi al sicuro? Non lo credo più. E poi, la parte 'giusta' della barricata è sempre la stessa, o si deve imparare ad attraversarla quando occorre?

 

patrizio gabetti

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