Editoriale | 19 giugno 2023, 22:42

Janira e tutti gli altri; la morte dei nostri cari ci ricorda per cosa vale la pena vivere

Janira e tutti gli altri; la morte dei nostri cari ci ricorda per cosa vale la pena vivere

Le esequie della giovane Janira Mellé, sabato scorso. Quella bara sul sagrato, accarezzata con tenerezza e sgomento da tutti; portata a spalle dentro e fuori dalla chiesa dai colleghi maestri di sci. L'omelia di don Papone, la lettera così piena d'amore del fidanzato Didier. L'indicibile dolore dei familiari attoniti, ancora increduli. Il nome di quella bella, generosa, forte ragazza inciso su una lapide come quello di un numero incalcolabile di altri esseri umani: come quello, inesorabilmente, di tutti noi. Quanti funerali ho seguito da cronista e quanti ne ho vissuti io, che con la morte ho avuto confidenza molto presto.

Eppure ogni volta, attraverso le lacrime mie o di altri, oltre le bellissime, commoventi parole dei sacerdoti, dei familiari e degli amici dei defunti, oltre alle tappe del rito sacro - che è conforto e promessa di vita eterna seppur in un altrove in cui possiamo aver fede ma nessuna prova - mi è sempre stato chiaro di vivere, proprio in quel momento di così apparente impotenza e sconfitta, un grande privilegio concesso a tutti gli esseri umani coscienti di sé e del mondo. Il privilegio della consapevolezza che niente come la morte ci conferma la straordinarietà della nostra esistenza, niente come la morte può farci apprezzare la fortuna di esser nati e la possibilità di vivere e manifestare i nostri sentimenti anche potendo soffrire per la perdita dei nostri cari. Perché anche il cordoglio è un dono della vita; anche dall'inevitabile, terribile male che genera un abbandono definitivo possiamo trarre forza e conforto: possiamo essere lasciati soltanto da chi abbiamo avuto con noi e il fatto di aver avuto vicino, per un tratto breve o lungo della nostra vita, qualcuno da amare profondamente è di per sé un regalo grande di cui essere grati. 

Nessuno può dirsi estraneo alla morte, la morte è parte ineludibile della nostra esperienza. Ma allora perché la cultura di oggi, la società odierna, hanno come 'cancellato' la morte? Perché attraverso i media, i social, i messaggi sempre meno subliminali e sempre più invasivi, si è voluto oscurare il sano e inevitabile concetto di nostra finitezza e alimentare invece l'illusione di un'immortalità che tutto può e alla quale nessuno chiederà un prezzo da pagare? Un'immortalità tesa al potere e al denaro, alla materia e al consumo. Tesa all'errore madornale di non aver più paura di nulla perché si è conquistato tutto. 

La paura della morte è sempre stata alla base di tutti i comportamenti umani individuali e collettivi, sin dai primordi, ma la cultura contemporanea ha rovesciato questa condizione, e va in direzione contraria rispetto all’intera storia dell’umanità. Il funerale è quella cosa intorno alla quale le comunità si sono sempre raccolte manifestando, attraverso la ritualità, il valore della vicinanza e dell'appartenenza, ritualità che ha sempre fatto riferimento alla volontà divina, aiutando l'uomo a lenire il dolore della perdita. Oggi questa ritualità ha però perso il proprio potere consolatorio, perché l'obbligo di questa società afflitta da mille paure molte delle quali totalmente infondate è vivere il 'presente': il defunto rappresenta il 'passato', non appartiene più al 'futuro' e la sua dipartita deve svolgersi rapida.

E così accade che la morte della persona amata diventa qualcosa su cui confrontarsi in ambito medico, legale, magari economico ma non più trascendentale o semplicemente emozionale. L'elaborazione sentimentale del lutto viene meno, non si completa e ci si scopre, anni dopo la celebrazione delle esequie, a cercare ancora l'estinto nelle pieghe della nostra anima perché si sente di non averlo ancora del tutto lasciato andare, di non averlo accompagnato a dovere nel suo ultimo viaggio. E questo è diverso dal provare sana nostalgia per chi non c'è più: questo è un tormento ingiusto che nessuno merita.

Saggio è dunque chi ancora è capace di soffrire genuinamente della morte, senza vergogna né nascondimenti e con la consapevolezza dell'ineludibile; saggio è chi dalla morte di una persona amata sa trarre la fondamentale necessità di riflettere sul proprio modo di esistere. Riflessioni che possono farci capire quanto spesso tralasciamo le cose più importanti della vita come quella di condividere il nostro tempo e percorso con i nostri simili; riflessioni che ci portano a riconoscere come superflue quando non inutili molte delle cose che nel trascorrere quotidiano ci appaiono erroneamente fondamentali.

Certo, chi è capace di soffrire genuinamente e senza vergogna della morte potrà essere colpito da fitte di dolore al cuore scorgendo nell'armadio un vestito di chi non c'è più, entrando dopo mesi, anni, nella casa di chi più non l'abita. Ma saprà trasformare questo dolore in gratitudine, questa tristezza improvvisa in serenità e accettazione. Chi è capace di soffrire genuinamente della morte non ha bisogno di sconfiggerla, e ha già vinto la paura.

patrizio gabetti

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