Editoriale | 16 aprile 2023, 09:10

Muore in alta montagna chi l'alta montagna la conosce, la rispetta, la teme

Muore in alta montagna chi l'alta montagna la conosce, la rispetta, la teme

Puntare il dito è una delle cose più facili e proprio per questo più praticate. L'Italia è un Paese iperconnesso e costantemente bombardato da informazioni virtuali (vere e false ma soprattutto inutili, stupide, volgari, inopportune) e proprio per questo è sostanzialmente sempre più ignorante e soprattutto sempre più 'giudicone'. Giudicare il prossimo è il diabolico esercizio dei più, puntualmente alimentato dai social e di cui i social si nutrono, in una sorta di perversa autofagìa che sminuzza le vite degli altri come il ragù della domenica.

E a giudicare con maggior fervore e saccenza un fatto, una persona, un accadimento sono, guarda caso, sempre quelli che ne sanno di meno, anzi nulla. 

Parliamo degli incidenti in montagna: chi, di tutte le persone decedute sotto una valanga, colpite da una scarica di sassi, cadute per aver sbagliato una manovra di discesa, chi fra questi era uscito di casa all'alba deciso a morire? Eppure non c'è circostanza migliore di un incidente in quota per scatenare la fantasia maldicente dei 'giudiconi'. Parole vuote, parole al vento, parole senza senso in una gara a chi vuole saperne di più perché niente conosce.

L'alta montagna è un luogo magico, straordinario, dove il tempo è sospeso ma non è un luogo ospitale; non è fatta per viverci, è un ambiente estremo, faticoso, sempre e comunque pericoloso per fattori morfologici e climatici. L'alpinista, meglio ancora la guida alpina che in quota ci va per professione lo sa benissimo, come sa che non può in alcun modo evitare quella 'imponderabilità' ricordata in questi giorni da qualcuno e a buon titolo.

La crisi climatica della montagna, il ritiro inevitabile dei ghiacciai e la loro morte con tutto ciò che di negativo ne consegue sul piano della sicurezza hanno fatto provocatoriamente dire a qualcuno, che sull'argomento ha studiato una vita, che forse sarebbe il caso di 'chiudere' le cime per almeno una ventina d'anni e poi se ne riparlerà.

Proposta saggia quanto improponibile: attorno all'alta montagna si è creato, da duecento anni a questa parte, un movimento economico, sociale, culturale, scientifico e sportivo che oramai è imprescindibile. A un grave, mortale incidente determinato quasi sempre da fattori casuali, circostanze sfortunate e qualche volta sì, anche da imperizia (sentenziata da esperti periti, non dai 'giudiconi') fanno da contraltare decine, centinaia di scalate e traversate alpine portate a termine per la gioia dei clienti e spedizioni himalayane concluse con successo degno di entrare nella Storia dell'alpinismo. Indietro da questo non si torna, anzi.

Ogni estate si fa bella mostra di fotografie di famiglie e coppiette in pantaloncini e scarpe da ginnastica a passeggio sui ghiacciai. Colpa della pubblicità a 360° che si è fatta e si continua a fare sulla 'montagna per tutti' che per tutti di fatto non è o meglio non è per gli scriteriati. Ma a finire in crepaccio, se ci si fa caso, non sono mai i vacanzieri da spiaggia perché i 'ghiacciai' su cui imprudentemente costoro camminano lo sono ormai praticamente solo di nome: accessibili comodamente dalle strutture di accoglienza e trasporto turistico, sono i cosiddetti 'neri', morfologicamente già defunti o quasi; sempre pericolosi, certamente, per chi non sa distinguere una traccia su neve dura con il pavimento di Galleria Vittorio Emanuele ma tutto sommato assai difficilmente mortali. Sono aree sì di alta montagna, ma a chi non sa cosa sia un'area di alta montagna questi moribondi non fanno più 'paura'; vengono letti (per l'ignoranza social di cui sopra) come 'spiagge di neve' su cui sgranchirsi dopo una bella scorpacciata di polenta e spezzatino.

No, a morire sotto valanghe, sotto scariche di sassi o perché ha sbagliato una manovra di corda non sono mai questi scellerati: muore chi la montagna la conosce, la rispetta, la teme. Muore chi ci sale e ancor più ci scende con coscienza e accortezza, muore chi è dotato di tecnica, forza ed esperienza. 

Nemmeno una pista su cui si corre su monoposto lanciate fino a 300 all'ora è un luogo ospitale in cui vivere, ma a nessuno è mai venuto in mente di dare giudizi di demerito sui piloti di F1 morti in incidenti di Campionato. Biasimare Ayrton Senna? Dargli dell'incompetente? Mai, perché Senna è morto mentre faceva il suo lavoro, pilota professionista e campione del mondo che conosceva benissimo i pericoli e i limiti del suo mestiere. Come bene conoscono i propri i professionisti, talvolta campioni anch'essi, della montagna. 

Di fronte a una tragedia determinata da fattori complessi per capire i quali è necessaria competenza ed esperienza, riuscire a tenere la bocca chiusa e lasciar parlare soltanto chi ha titolo per farlo è l'unica cosa saggia da fare. Difficilissimo in un mondo dominato da urla e parole a sproposito, ma grande esercizio di stile per tutti.

E sul tema della necessità di tacere oppure di usare la giusta terminologia parlando di montagna, colgo l'occasione per una sottolineatura che mi sta a cuore. Giorni fa in un'intervista televisiva il presidente di una società funiviaria ha definito Cime Bianche un "vallone abbandonato". Io non entro minimamente nel merito delle buone intenzioni di quell'amministratore circa la sua sincera volontà di migliorare il territorio montano e renderlo maggiormente fruibile. Ma 'abbandonato' è un termine che vale per una zona vissuta dall'uomo e poi lasciata nel degrado, non per un'area 'in purezza' come Cime Bianche, così rimasta proprio perché finora l'uomo ci è passato ben poche volte. 

patrizio gabetti