Editoriale | 26 marzo 2023, 09:10

Su Cime Bianche non sono ammessi errori

Su Cime Bianche non sono ammessi errori

Vivere e lavorare nella piccola Valle d'Aosta circondata dalle vette più alte d'Europa è sicuramente una sensazione inebriante per gli amministratori pubblici e gli operatori economici valdostani. Lo è da sempre e non potrebbe essere diversamente: il turismo di montagna è soprattutto elitario, porta denaro nelle casse e facile popolarità.

Dal Dopoguerra, gli impianti di risalita nei decenni hanno fruttato miliardi di lire prima e milioni di euro poi e poco importa se da almeno 50 anni circola in Valle il leit motiv "dobbiamo prendere esempio dal Trentino": esempio dal Trentino non è mai stato preso ma i soldi sono sempre arrivati perché quando l'eccellenza si chiama Monte Bianco, Cervino, Monte Rosa, Gran Paradiso non ha bisogno di un ufficio marketing: si vende da sola. 

Così è stato per lungo tempo, ma intanto le montagne si sono ammalate. E quando uno è ammalato il suo modo di rapportarsi al mondo cambia e deve cambiare il modo del mondo di rapportarsi a lui. La malattia delle montagne ha intrapreso un processo irreversibile e la conoscono ormai tutti: si chiama scioglimento dei ghiacciai, che muoiono sempre più velocemente e non si sa quando il ciclo terracqueo ne consentirà la formazione di nuovi (ma non sarà domani, questo è certo). 

I propositori del collegamento intervallivo di Cime Bianche - e non solo loro ma tutti coloro che realizzano progetti di sviluppo turistico in ambiente alpino - sono certamente animati da buonissime intenzioni di sviluppo occupazionale ed economico ma devono però tener conto di questo fattore determinante: la montagna di oggi non è più quella di ieri e quella di domani non sarà quella di oggi. Qualunque opera d'ingegneria che si costruirà d'ora in poi in montagna dovrà partire da questa valutazione, ambientale ancora prima che economica perché, anche se magari a qualcuno piacerebbe fosse così, i soldi non sono tutto.

La semplificazione, in questi casi, non aiuta a capire meglio le cose, anzi è pericolosa. I "quattro piloni" citati in Consiglio Valle dal consigliere regionale Aurelio Marguerettaz per spiegare il minimo impatto ambientale della maxi funivia non sono quattro e l'organizzazione contabile-logistica di un impianto come Cime Bianche non può ammettere superficialità dialettica (men che meno da chi come lui ha fatto della dialettica un punto di forza dell'agire politico).

Il discorso vale, all'inverso, anche per i talebani dell'ambientalismo che non sopportano l'idea di un solo filo d'erba strappato: "Per realizzare la pista ciclabile abbiamo dovuto abbattere alcuni alberi, è vero, ma ne pianteremo altri e altrettanti o anche di più in luoghi diversi" mi ha detto un giorno l'assessore all'Ambiente del Comune di Aosta, Loris Sartore, che la stella di ambientalista la porta da sempre sul petto, ma con logica e buon senso.

Nemmeno è possibile prescindere dall'inevitabile rivoluzione urbanistica e turistico-ricettiva che la realizzazione dell'impianto comporterà nel territorio di Ayas e soprattutto nel microcosmo di Saint-Jacques, partenza della meravigliosa salita al Colle Superiore delle Cime Bianche. Ancor prima di pensare al collegamento, occorre forse riprogettarne il sito che dovrà accoglierlo.

Sarà un percorso lungo e pieno di ostacoli, quello che porterà alla decisione di costruire o meno il maxi collegamento funiviario tra Ayas e Zermatt. Dal sentiero intrapreso oggi dipendono le tappe future: se si prende quello sbagliato, qualunque esso sia, non sarà più possibile tornare indietro.

 

 

pa.ga.

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