Attualità | 23 maggio 2025, 07:00

Giovanni Falcone, il coraggio di sfidare il buio e l'eredità tradita

Giovanni Falcone, il coraggio di sfidare il buio e l'eredità tradita

Il 23 maggio 1992, sotto il cielo di Palermo squarciato dal boato della strage di Capaci, l’Italia si risvegliò davanti all’evidenza che la mafia non era solo un fenomeno criminale, ma una forza radicata nel tessuto del potere. In quel tratto di autostrada distrutto, non scomparve soltanto un magistrato, ma una speranza: Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e gli uomini della sua scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani furono strappati alla vita con un’esplosione che non mirava solo a uccidere, ma a intimidire, a cancellare una visione diversa del mondo.

Eppure, ci sono uomini che non muoiono mai. Non perché vengono commemorati ogni anno, ma perché la loro assenza continua a pesare sulla coscienza collettiva. Falcone non era un eroe nel senso romantico del termine. Era un uomo di legge, metodico, razionale, profondamente consapevole della solitudine della verità. Prima che la mafia lo condannasse a morte, furono le istituzioni a cercare di ostacolarlo, la diffidenza dei colleghi, le calunnie, l’isolamento. "Si vuole colpire la mafia? Allora bisogna entrare nell’ottica che si pagherà un prezzo altissimo," diceva. Un prezzo che lui ha pagato con la vita. Eppure, non era solo. Al suo fianco c’era Paolo Borsellino, più impulsivo, più incline alla commozione, ma legato a Falcone da una lealtà incrollabile. La loro amicizia era fatta di fiducia reciproca, di una missione condivisa e della consapevolezza che il destino li avrebbe travolti. Dopo la morte di Falcone, Borsellino sapeva di essere il prossimo bersaglio. "Ora tocca a me," disse ai suoi familiari. Non fuggì. Aspettò la fine con dignità, come si aspetta qualcosa di inevitabile. Il 19 luglio 1992, via D’Amelio divenne il nuovo teatro della tragedia, e l’Italia perse i suoi due più grandi combattenti.

Giovanni Falcone non si limitava a combattere la mafia con la repressione. Aveva introdotto strumenti che ancora oggi costituiscono il cuore della lotta: il pool antimafia, l'uso della collaborazione dei pentiti, il tracciamento dei flussi finanziari mafiosi. Aveva dimostrato che Cosa Nostra non era un’entità invisibile, ma un’organizzazione con regole, interessi economici, una struttura verticale. Il maxiprocesso di Palermo, con centinaia di condanne, fu la prova che la mafia poteva essere messa in difficoltà. Oggi, più di trent’anni dopo, il nome di Falcone è inciso su targhe, scuole, monumenti. Eppure, il suo sogno di una giustizia libera e incorruttibile sembra ancora lontano. La mafia non è più quella delle stragi, ma si è evoluta, infiltrandosi nelle istituzioni, nelle imprese, nei circuiti finanziari.

Ci sono ancora depistaggi, verità negate, pezzi dello Stato che si piegano agli interessi criminali. Falcone sognava istituzioni senza zone grigie, ma queste zone esistono ancora, avvolte da un silenzio inquietante. Viviamo in un mondo dove la verità è spesso sacrificata per convenienza, dove il coraggio è soffocato dal compromesso. Quanto siamo disposti a difendere ciò che è giusto? Quanto siamo pronti a sfidare l’indifferenza?

Perché la mafia, in fondo, non è solo quella che spara. È quella che compra silenzi, che detta le regole invisibili e che addomestica le coscienze. Perché la giustizia non è un concetto astratto: è un cammino. Un impegno. Una promessa. E non possiamo permetterci di tradirla.

a.a.