Il Primo Maggio nasce dalle lotte degli uomini che non volevano essere semplici ingranaggi nella macchina industriale, ma individui dotati di dignità e diritti. La richiesta di riduzione della giornata lavorativa, che culminò nei moti operai di Chicago nel 1886, non era solo un’esigenza economica, ma un’affermazione filosofica: l'essere umano non può vivere solo per lavorare, perché il lavoro è mezzo, non fine.
L'1 maggio 1889, la Seconda Internazionale socialista, riunita in congresso a Parigi, decise di promuovere in tutto il mondo, e in maniera simultanea, una manifestazione per consentire ai lavoratori di affermare la richiesta di più equità. Nel 1890 questa consapevolezza prese forma anche in Italia, trasformando il primo giorno del mese di maggio in una giornata di rivendicazione collettiva. Con il tempo, il lavoro si è evoluto, passando dalle fabbriche in fumo della rivoluzione industriale agli uffici digitali del XXI secolo.
Oggi, con l’intelligenza artificiale, ci troviamo davanti a un nuovo bivio: il lavoro sta scomparendo o semplicemente sta mutando? E soprattutto, se il lavoro è ciò che nobilita l’uomo, cosa accade quando una macchina lo sostituisce? Il lavoro non è solo produzione di beni o servizi. È la manifestazione della volontà umana di creare, costruire e lasciare un’impronta nel mondo. Il contadino che coltivava la terra, l'artigiano che modellava il legno, il poeta che componeva versi, non svolgevano semplicemente una funzione economica ma disegnavano un frammento di sé dentro l’universo.
Oggi, con l’intelligenza artificiale questa dinamica cambia: la macchina non ha bisogno di significato, non cerca un senso nella fatica, non prova orgoglio nel creare. Se il lavoro è un riflesso dell’uomo, cosa significa affidarlo a una tecnologia che non ha coscienza, né desiderio? Studi recenti indicano che il 27% dei posti di lavoro nei paesi industrializzati è a rischio di automatizzazione. I settori più colpiti includono l industria manifatturiera ove la produzione è sempre più affidata ai robot, riducendo la necessità di operai qualificati; i servizi finanziari in quanto gli algoritmi prevedono trend economici e gestiscono investimenti senza bisogno dell’uomo; la sanità perché l’IA supporta la diagnosi e le decisioni mediche, riducendo l’intervento umano.
Anche professioni creative e di comunicazione sono a rischio in quanto i testi vengono generati automaticamente e le immagini create da reti neurali, sfidando il ruolo dell’artista e dello scrittore. Se la storia ci insegna qualcosa, però, è che il lavoro non scompare ma si trasforma. Nuove figure professionali emergono, mentre altre svaniscono. L’uomo, nelle sue evoluzioni, ha sempre trovato il modo di reinventarsi, ma il principio fondamentale è mantenere la propria centralità nella tecnologia, piuttosto che esserne dominato.
L’intelligenza artificiale è solo uno strumento. Non è di per sé buona o cattiva: dipende da come la usiamo. Se la accettiamo passivamente, finiremo per diventare spettatori della nostra stessa esistenza. Se invece impariamo a integrarla in modo etico e intelligente, può diventare un mezzo per liberare tempo, affinare le nostre capacità e potenziare la creatività. L’essenza dell’uomo non è solo eseguire ma interpretare, immaginare, trasformare. Nessuna macchina può provare l’emozione di creare qualcosa di significativo.
L’IA può generare un dipinto, ma può sentire l’arte? Può scrivere una poesia, ma può capire la bellezza di un verso? L’unicità dell’uomo sta nel suo pensiero critico, nella sua capacità di dare senso alle cose, di attribuire significati al mondo che lo circonda. Il lavoro è ancora nostro e oggi lo celebriamo.Il lavoro è più di una necessità.Quindi ul progresso non va temuto, ma governato.
Se sapremo guidare l’evoluzione tecnologica con saggezza, il futuro del lavoro resterà profondamente umano. La sfida non è impedire alla macchina di lavorare, ma garantire che l’uomo non smetta di pensare, creare e sentire.