Last Night in the Bittersweet è la dimostrazione che per fare un disco sincero che possa fare la differenza c'è bisogno, prima di ogni cosa, di vita vera. E, perché no, pure della capacità di unire la ferocia della quotidianità alla bellezza di un amore, che sia esso banale o straordinario.
Paolo Nutini torna con un nuovo album a otto anni dall’ultimo lavoro discografico Caustic Love (uscito ad aprile 2014). La prima cosa che emerge, ascoltando Last Night in the Bittersweet, è proprio la cura che il cantautore scozzese (ma il padre era originario di Lucca) ha dedicato alle sue nuove canzoni, ampliando le sfumature della sua musica e proponendo il suo inconfondibile timbro, appoggiandolo a brani che alternano la ferocia della quotidianità alla semplicità di una storia d’amore.
Chi ha amato il Paolo Nutini più acustico dei primi due album (stiamo parlando, ad esempio, della hit del 2007 New Shoes ma anche di capolavori come Last Request e Candy) ritroverà l’essenzialità e l'urgenza espressiva dei suoi inizi. Chi, invece, ha apprezzato tutte le sue sperimentazioni artistiche dell’ultimo Caustic Love potrà riconoscere la stessa voglia di mettersi in gioco. Se non di più.
Un basso accattivante introduce “Radio” che si muove fra chitarre sognanti e malinconie pop. “Through the Echoes”, forse è uno dei singoli più ascoltati in radio tratti dall’album. Ha un’impronta decisamente da ballad classica, non solo nella strumentazione rigorosamente vintage. Il piano accennato e l’anima soul che torna a graffiare. “Acid Eyes” ha un ritornello tipicamente pop che rimanda al Nutini del passato ma la strumentazione è completamente adattata in libertà espressiva, come il resto del disco.
Neanche il tempo di accenni di elettronica “umana”, alla Radiohead, per intenderci in ” Stranded Words” che parte uno dei pezzi più “fuori dagli schemi” del disco: “Lose it”. Il rimando a Lou Reed è immediato, stesso strato di chitarre abrasive e voce recitante. “Petrified in love” suona molto Tom Petty. Il batterista che dà il quattro con la bacchetta, a testimonianza di un album espressamente suonato ( e sentito) live. Con “Everywhere” si alimenta un crescendo soul di tutto rispetto. “Abigail” invece curva in territori folk con un’essenzialità vicina a Johnny Cash. “Children of the Stars” invece sembra una take dei Fleetwood Mac rimasta nascosta negli anni come una gemma preziosa. “Heart Filled Up” riprende dall’inizio. Come in “Afterneath” anche qui gli strumenti sono liberi di andare, con il ritmo ossessivo di un riff che suona come un mantra che si espande nell’universo sonoro lasciandoci orfani. “Shine a light” ha richiami sospesi fra Springsteen e U2, ma nella migliore accezzione possibile. “Desperation” invece ha stoffa post-punk senza snaturare però la personalità.
Paolo Nutini quindi torna con un album sostanzioso ( circa 70 minuti e 16 canzoni) che ci consegna un artista libero di sperimentare nuove soluzioni senza perdere lo spirito struggente e romantico, autentico e sognatore. Gli otto anni di attesa sono dunque serviti a far nascere in lui la consapevolezza di un artista capace di sperimentare la magia della musica e degli strumenti. A noi non resta che abbandonarvi in questo piacevole viaggio.