Istituita in Italia nel 2007, la data simbolica del 9 maggio ricorda il sacrificio di chi ha perso la vita per difendere la democrazia e la libertà. Il terrorismo, che sia politico, mafioso o internazionale, rappresenta un attacco diretto ai valori fondamentali della società.
Il 9 maggio 1978, mentre l’Italia si svegliava sconvolta dalla notizia del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, un altro uomo cadeva vittima di un potere oscuro e radicato: Peppino Impastato, giovane giornalista e attivista siciliano, veniva assassinato dalla mafia. La sua morte, avvenuta nello stesso giorno di quella di Moro, rischiò di essere inghiottita dall’eco mediatico del terrorismo politico.
Eppure, la storia di Peppino è una testimonianza potente di resistenza, di coraggio e di una lotta che non si è mai piegata al compromesso e Peppino lo sapeva bene. Cresciuto in una famiglia legata a Cosa Nostra, scelse di rompere con il destino che sembrava già scritto per lui. La sua ribellione non fu solo personale, ma politica e culturale. Attraverso Radio Aut, denunciava con ironia e lucidità gli affari sporchi della mafia, smascherando il sistema di oppressione che soffocava la sua terra. La sua lotta lo rese un bersaglio, non solo per la mafia, ma anche per chi preferiva mantenere lo status quo. La sua voce era scomoda, disturbava, metteva in discussione un sistema che molti accettavano come inevitabile.
La mafia non uccide solo con il tritolo; uccide con l’indifferenza, con la paura, con la rassegnazione. Peppino sfidò tutto questo, pagando con la vita. La mafia non è solo un’organizzazione criminale: è un atteggiamento. È il fare finta di niente di fronte a un’ingiustizia, è il voltarsi dall’altra parte quando vediamo un abuso, è il silenzio che diventa complicità. Ogni volta che scegliamo di non agire, di non denunciare, di non prendere posizione, contribuiamo, anche inconsapevolmente, a rafforzare quel sistema di potere che lui ha combattuto. La mafia non è solo violenza; è consenso, è controllo, è una forma di dominio che si perpetua attraverso la cultura dell’omertà. Combatterla non significa solo arrestare i suoi membri, ma smantellare il sistema di valori che la sostiene. Significa educare, denunciare, rompere il silenzio.
E Peppino Impastato ci ha insegnato che non è invincibile, ma che la sua sconfitta richiede coraggio. Non il coraggio degli eroi, ma quello delle persone comuni che scelgono di non piegarsi, di non accettare l’inaccettabile. La sua lotta ci ricorda che la giustizia non è un concetto astratto, ma una responsabilità collettiva.
La mafia non è solo quella che uccide. È quella che compra silenzi, che addomestica le coscienze, che trasforma l’ingiustizia in normalità e la giustizia non è un dono. È una conquista. E dipende da noi far sì che non sia solo un ricordo, ma una missione ancora da compiere.