La Vigilia di Natale dovrebbe essere un tempo sospeso, come un respiro trattenuto prima di un canto. Dovrebbe rappresentare l’apice di una preparazione che si costruisce lentamente, settimana dopo settimana, e che non si misura in regali o in corse frenetiche, ma nell’attesa silenziosa che cresce dentro ciascuno di noi. Eppure, quando ci fermiamo a pensare, ci accorgiamo che quel silenzio oggi è spesso attraversato da un’ombra di solitudine e nostalgia. Ci chiediamo se è davvero la società che ci ha resi più veloci e più soli, oppure siamo noi che, diventando grandi, abbiamo perso la capacità di stupirci delle piccole cose? Forse entrambe le cose si intrecciano, come fili di un tessuto che non sappiamo più distinguere.
In questo ritmo incessante cresce la nostalgia di ciò che era, di un Natale fatto di gesti semplici, di un calore che non si comprava ma si costruiva insieme. È un sentire che porta con sé, a volte, un senso di abbandono, perché spesso ci accorgiamo che la magia di un tempo sembra più difficile da ritrovare. È come se la vita fosse diventata un treno che corre troppo veloce; ma siamo noi a non riuscire più a salire, o il treno stesso non si ferma più nelle stazioni dove un tempo si attendeva con pazienza?
Se chiudo gli occhi, i ricordi di questo giorno mi accarezzano come per incanto, portando con sé profumi e suoni rimasti scolpiti nella memoria... i dolci tipici che sfrigolano piano in padella, il sugo che sobbolle sul fuoco, il tintinnio leggero delle posate. La cucina prendeva vita già dal primo pomeriggio, quando il brodo per i tortellini iniziava a diffondere il suo aroma. Era un’orchestra domestica di gesti e fragranze che si diffondeva in ogni stanza, e l’imbrunire segnava il tempo come un sipario che cala sul giorno e si solleva sulla festa, annunciando che la magia stava per cominciare.
Ricordo la mia famiglia numerosa, e in quella memoria ritrovo la vera magia del Natale. La sala diventava il cuore della festa. Quel tavolo rotondo degli anni '70 che si allungava per accogliere noi familiari e chiunque bussasse alla porta. Il desiderio e il piacere di sentire il campanello suonare, di vedere la porta aprirsi e sperare che qualcuno arrivasse a unirsi a noi, erano quasi palpabili. A quel richiamo si aggiungeva l’emozione infantile di chiedere ai genitori chi, tra i volti di famiglia, sarebbe arrivato per condividere la serata.
Dopo cena, e dopo la messa, intorno al tavolo si giocava la tombola, le cartelle passavano di mano in mano, e le risate si mescolavano al tintinnio dei bicchieri, al lieve scricchiolio della frutta secca che si apriva tra le dita e alla morbidezza del panettone che si tagliava piano, fetta dopo fetta. Poi arrivavano i giochi di carte, il sette e mezzo e la “romana”, e il tempo sembrava fermarsi in quella complicità.
Nei corridoi i bambini correvano e preparavano gli spettacoli improvvisati per la notte di Natale dedicati ai genitori; tutti in fila dal più piccolo al più grande con corone di cartoncini decorati di stelline in testa, mentre nelle camere da letto le sorelle maggiori e i fratelli si confidavano racconti e segreti dell’anno appena trascorso. In sottofondo scorreva la musica natalizia, e tra le melodie si intrecciavano anche le canzoni di un tempo; ricordo in particolare le parole del testo di Raf: “Anni come giorni son volati via, brevi fotogrammi o treni in galleria… Cosa resterà di questi anni Ottanta, afferrati e già scivolati via”. Quelle frasi sembravano legarsi al momento, ricordandoci che ciò che resta davvero non sono le mode o le corse, ma i gesti semplici, le emozioni condivise, la memoria che si costruisce insieme.
E in mezzo a tutto questo, l’immagine di mamma con il solito grembiule a fiori blu, indaffarata tra pentole e piatti, e di papà, anche lui con il grembiule, pronto ad apparecchiare con cura e a dare una mano. Erano loro il centro silenzioso di quella festa; la loro presenza, i loro gesti quotidiani, erano l’abbraccio che teneva insieme la famiglia e tutti coloro che bussavano alla porta e desideravano unirisi a noi.
L’attesa della mezzanotte era un fremito... la Messa, il ritorno, semplici e prezosi ed utili regali sotto l’albero, e la certezza che le feste non erano finite, che c’era ancora tempo da vivere insieme.
Quell’eredità mi ha insegnato che la famiglia non è solo sangue, ma accoglienza. È aprire la porta a chi non può permettersi di festeggiare, è offrire un sorriso a chi soffre, è condividere un gesto semplice con chi ha più bisogno. È empatia che si estende oltre i confini della casa, oltre le montagne, oltre le nazioni. È la consapevolezza che la vera magia del Natale non si compra, ma si crea attraverso la genuinità dei gesti, con l’amore gratuito, con la capacità di trasformare la fragilità in forza condivisa.
Il 24 dicembre non è un punto di arrivo; è una stazione che ci ricorda come il Natale debba essere vissuto, con la stessa intensità, la stessa gioia semplice e la stessa voglia di rendere felici gli altri. Non bisogna dimenticare che questa energia non appartiene a un solo giorno e chi continua a viverla così, con gesti sinceri e condivisione, ci mostra che la magia resiste.
La Vigilia di Natale è il treno che torna ogni anno e si ferma per chi sa ancora attenderlo con pazienza.
E' un tempo che ci offre la possibilità di ricordare chi siamo.
La Redazione tutta augura ai lettori una serena e intima festa.






