Il momento forse più intenso dell’11esimo congresso di 'Nessuno tocchi Caino', svoltosi dal 18 al 20 dicembre al Teatro Puntozero del carcere minorile 'Cesare Beccaria', è stato l’intervento del Marco Sorbara, professionista aostano oggi consigliere regionale di Forza Italia.
Una testimonianza asciutta, priva di retorica, capace però di andare al cuore del tema che ha attraversato l’intero Congresso: il senso della pena e il confine, spesso fragile, tra giustizia e umanità.
Sorbara ha raccontato la propria esperienza di ingiusta detenzione (909 giorni tra cella e domiciliari; era stato arrestato il 19 gennaio 2019 nell'ambito dell'inchiesta 'Geenna') non come una cronaca giudiziaria, ma come una ferita che continua a interrogare. Il dolore, la perdita della libertà, la frattura improvvisa della vita quotidiana: elementi che avrebbero potuto facilmente trasformarsi in rabbia o desiderio di rivalsa. E che invece, nel suo percorso, sono diventati terreno di una scelta diversa, difficile e tutt’altro che immediata: quella del perdono.
Un perdono che Sorbara ha chiarito non essere né rimozione del male né assoluzione dell’ingiustizia subita. Al contrario, è stato presentato come un atto consapevole di liberazione personale, una forma di resistenza civile contro la tentazione dell’odio. "Non perdonare – ha lasciato intendere – significa restare prigionieri due volte". Un’affermazione che, in un luogo come il Beccaria, ha assunto un valore simbolico potente.
Da qui il passaggio alla giustizia riparativa, intesa non come concetto astratto ma come pratica concreta capace di restituire senso alla pena. Sorbara ha parlato di responsabilità, riconoscimento del dolore, ricostruzione delle relazioni spezzate. Una giustizia che non si limita a punire, ma che prova a comprendere il danno prodotto e a riaprire un dialogo possibile tra vittime, autori di reato e comunità.
Il suo intervento si è inserito idealmente nel solco del pensiero di Adolfo Ceretti, più volte richiamato nel corso del Congresso: la pena non come fine, ma come mezzo; non come annientamento, ma come possibilità di trasformazione. In questa prospettiva, anche il carcere può diventare – se lo si vuole – uno spazio di ascolto, consapevolezza e cambiamento, e non soltanto di esclusione.
Non è un caso che questa testimonianza sia risuonata con forza all’interno del congresso di Nessuno tocchi Caino, associazione che da oltre trent’anni porta avanti una battaglia culturale e politica contro la pena disumana e per una giustizia fondata sulla dignità della persona. “Visitare i carcerati”, come ricordato più volte, non è un gesto caritatevole, ma un atto profondamente politico.
Il messaggio che Marco Sorbara ha lasciato al Beccaria è netto e scomodo: una società matura non è quella che si vendica, ma quella che sa interrogarsi sull’errore, sull’ingiustizia e sulla possibilità del perdono. Una giustizia che non umilia e una pena che non annienta non sono utopie buoniste, ma scelte di civiltà. Scelte che, come ha dimostrato la sua storia, possono nascere anche dal buio più profondo.




