In questa domenica si celebra la festa dell’esaltazione della croce. Qualcuno potrebbe obiettare: perché elogiare uno strumento di morte che i romani usavano per condannare coloro che erano ritenuti dei criminali o dei ribelli e si erano macchiati di reati contro il potere di Roma? Oltretutto le crocifissioni avevano il compito di essere un monito e per questo avvenivano agli ingressi delle città. Cicerone la definì: “Il supplizio più crudele e più ripugnante”.
C’è un’annotazione da fare. Agli inizi del cristianesimo la croce non era mai usata come simbolo e tanto meno il crocifisso perché non era onorevole mostrare il proprio Dio inchiodato a quel patibolo ma si utilizzavano altri segni, quali il pesce, che era un marchio di riconoscimento segreto dei cristiani, l’agnello, il Cristo buon pastore, l’ancora come l speranza e la fenice come richiamo alla resurrezione. Solo una volta, abolita la pena di morte per mezzo della croce, per volontà dell’imperatore Costantino, progressivamente i cristiani iniziano ad adottare i primi crocifissi dove non vi era però rappresentato Gesù sofferente e morto bensì si trattava di croci trionfanti rivestite d’oro, d’argento e pietre preziose in modo da risplendere alla luce del sole e delle candele. L’intento era quello di donare un senso di trionfo della luce sulle tenebre del male, del peccato e della morte; come nel caso della croce gemmata di Giustino, utilizzata per secoli nelle celebrazioni solenni del Natale o della Pasqua, emblema del Tesoro di san Pietro dove ancora oggi è esposta e custodita. Essa reca un testo in latino che in italiano recita così: “Con questo legno, attraverso il quale Cristo soggiogò il nemico degli uomini, dona Giustino a Roma l’opera e la sua compagna gli ornamenti”.
Dal testo si evince l’intento votivo dell’imperatore d’oriente Giustino di donare un prezioso manufatto, come esemplare testimonianza di fede alla città di Roma, e della sua sposa, l’imperatrice Sofia, che ha donato allo stesso scopo le perle e le gemme per decorarla. La croce da simbolo di condanna, di vergogna e di morte atroce diviene con il sacrificio di Gesù, segno dell’amore smisurato di Dio per noi, del trionfo del bene sul male, del perdono sul peccato, della vita sulla morte. Ecco perché ha senso celebrare una festa che esalti la croce. Essa ci ricorda una vittoria importante per tutta l’umanità, esattamente come un trofeo che viene esposto o portato in trionfo per celebrare il successo sportivo di una squadra. Il brano di Vangelo è estrapolato dal dialogo notturno che intercorse tra Gesù e Nicodemo, i passaggi che vi sottolineo ci aiutano a comprendere ancor di più perché ha senso esaltare la croce di Cristo: “Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”.
Ha senso esaltare la croce perché guardando ad essa il nostro sguardo si innalza mentre spesso siamo ripiegati su noi stessi, sui nostri problemi e drammi personali e non ci accorgiamo che in quanto amati da Dio non siamo mai perduti, mai abbandonati a noi stessi ma possiamo contare sempre sull’appoggio di Gesù. Secondo passaggio: “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Ha senso esaltare la croce perché rivelatrice dell’amore folle che Dio nutre per ciascuno di noi e ci insegna qual è il vero senso della vita, qual è il sentiero che conduce alla felicità, cosa ci salva da noi stessi: amare, donarci, spenderci per qualcosa e qualcuno. La croce perciò va esaltata e guardata; è importante sostare e pregarci dinanzi perché ci rimanda all’amore di Dio, all’amore che dona senso alla nostra esistenza, al fatto che anche nei tragitti più difficoltosi e dolorosi della vita, ultimo la morte, non siamo soli ma vi è Gesù al nostro fianco che ci conduce verso la luce.
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Letture d’arte è un’idea nata dieci anni fa che don Quattrone ha realizzato e che sta portando avanti per il settimanale Il Corriere della Valle della Diocesi di Aosta. Si tratta del commento delle letture della domenica compiendo un viaggio nello sconfinato panorama della storia dell’arte. Ogni settimana accosta la Parola di Dio della domenica ad un’opera, spaziando in varie forme espressive quali la pittura, la scultura, l’installazione, la fotografia, l’architettura.
Si tratta di un percorso che si muove nelle varie epoche, senza pregiudizi, scoprendo la forza e la bellezza non solo dell’arte antica ma anche di quella moderna e contemporanea. Questo cammino è iniziato quasi per gioco e sulla scia degli studi compiuti all’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano dove Paolo Quattrone si è laureato nel 2008. La sfida è quella di riscoprire l’arte come canale privilegiato per rientrare in noi stessi, parlare di Dio e andare a Lui.
Il pensiero di fondo che caratterizza questa esperienza è quello che un’opera d’arte è tale nel momento in cui riesce a farci andare oltre la superficie, oltre la realtà. L’artista, come sosteneva Kandinskij, è un sacerdote che ha la missione di aprirci una finestra verso l’oltre, per farci accorgere che esiste una dimensione spirituale, per aiutarci ad esplorare i sentieri dello spirito. Questo ha portato don Quattrone ad affermare senza ombra di dubbio che tutta l’arte è sacra. E’ un errore immenso distinguere tra arte sacra e profana! Esiste l’arte religiosa e non, ma non è il soggetto rappresentato che rende sacra o meno una pittura, una scultura, un brano musicale o un film ma è ciò che trasmette, l’energia, la forza che suscita nel cuore dello spettatore.
Questa esperienza è possibile non soltanto ammirando opere a soggetto religioso ma anche contemplando quadri, sculture, installazioni che apparentemente sembrano non comunicare nulla di profondo. Un’opera d’arte è tale quando acquista una sua autonomia, una vita propria, quando riesce a far compiere all’osservatore riflessioni e percorsi che vanno oltre le intenzioni dell’autore.
Accostare Parola di Dio e arte vuol dire far convivere due canali che hanno la finalità di farci andare oltre la superficie, che conducono l’uomo a pensare, a scoprire la dimensione spirituale della propria esistenza.